Patchwork Ethnography

Soggettivare lǝ antropologǝ. Ovvero come si può conciliare l'idea del lavoro antropologico con le condizioni di vita delle persone che lo svolgono.

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“Nuove Antropologie” è un ciclo di incontri che abbiamo pensato con l’obiettivo di dare spazio a dialoghi su alcune delle direzioni della ricerca antropologica che non sempre trovano risalto negli studi canonici sulla disciplina.
Il seminario si sviluppa intorno a due domande principali che attraversano tutti gli incontri: in cosa consiste questo approccio? e quale contributo particolare offre questo approccio all’antropologia?

La Patchwork Ethnography è un nuovo approccio metodologico e teorico alla ricerca etnografica, che si occupa di come il cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro stia trasformando irrevocabilmente la produzione di conoscenza.” Così recita la frase che apre il sito dedicato alla Patchwork Ethnography.

Ormai da tempo l’antropologia ha smontato l’efficacia e l’applicabilità di processi oggettivanti nella ricerca scientifica, ma la figura dellǝ ricercatorǝ è ancora circondata da caratteristiche che ne fanno una personalità neutra, capace di cogliere, grazie all’intuizione, le situazioni che si sviluppano nel campo di ricerca. Se lǝ interlocutorǝ sono statǝ elevatǝ al livello di co-produttorǝ di conoscenza, anche grazie alla loro partecipazione nella vita quotidiana del campo, lǝ antropologǝ rimangono autorǝ esterni che, con un metodo standardizzato, svolgono le funzioni della disciplina senza mettere in evidenza le proprie condizioni materiali. È a questo che il sottotitolo dell’incontro si riferisce: è importante considerare la realtà dellǝ antropologǝ per capire come il loro posizionamento influisca sulla ricerca.

Che lǝ antropologǝ faccia etnografia su un campo è un dato che non viene messo in discussione; la Patchwork Ethnography permette invece di mettere in luce le relazioni che legano ricercatorǝ e campo alle strutture di potere, agli assunti della disciplina e ai canoni che si sono strutturati nel tempo. La riflessione matura nei primi mesi del 2020, in pieno lockdown, quando Gökçe Günel, Saiba Varma e Chika Watanabe pubblicano su Cultural Anthropology “A Manifesto for Patchwork Ethnography”. L’obiettivo è riconsiderare le cose ovvie in antropologia, si può fare un’etnografia durante una pandemia?

Tempi e luoghi delle ricerche antropologiche sono spesso stati dati per scontati: si sta sul campo per un lungo periodo, almeno sei mesi, e possibilmente questo campo deve essere in un luogo estraneo, non necessariamente dall’altro capo del mondo. Il lockdown ha impedito tutto questo e i dubbi già presenti si sono palesati in maniera più marcata: quanto è netta la separazione fra “campo” e “casa”? Lǝ ricercatorǝ è sempre disponibile a tutto? Si tratta di domande che sicuramente non sono nate in seno alla pandemia ma che, grazie a essa, hanno avuto lo spazio di manovra per insinuarsi nel discorso pubblico. Le modalità alternative di fare etnografia, come l’uso di relazioni a distanza mediate telematicamente, sono state rese accettabili e riconosciute valide tanto quanto la presenza; non resta che estenderle anche al mondo post-pandemia, in cui le limitazioni continuano a esistere nella forma di contratti, disponibilità economiche e relazioni di cura. La Patchwork Ethnography prova a svelare i modi in cui le situazioni personali dellǝ antropologǝ condizionino le modalità di ricerca, sottolineando come questo sia sempre avvenuto ma anche taciuto. Tematizzare tali influenze permette di scorgerne il valore nella produzione etnografica.

All ethnography is Patchwork Ethnography.

Casa e campo sono spesso pensati come distanti, poli opposti fra i quali la vita dellǝ ricercatorǝ si svolge. Una distinzione casa e lavoro che non regge più il confronto con le esperienze reali: da un immaginario di alternanza lineare a uno di continuità frastagliata, come una coperta fatta dall’unione di tanti pezzi di stoffa diversi. La sfida è integrare questa irregolarità nel processo epistemologico, esplorando e comprendendo i limiti e le possibilità che permanenze brevi, contatti a distanza e difficoltà economiche offrono.
Se il campo non è definito dallo spazio e dal tempo – come abbiamo riflettuto anche nell’incontro precedente – vuol dire che le relazioni che instauriamo e lo sguardo che adottiamo concorrono ai risultati. Le relazioni non sono solo fra le persone del campo ma integrano anche la “casa”, le persone esterne alla ricerca ma interne all’universo dellǝ antropologǝ. Il campo è una zona di contatto, di mescolamento, che non inizia e non si esaurisce in un arco temporale quantificabile.

L’etnografia non è solo influenzata dai soggetti primari che la producono, lǝ antropologǝ e lǝ interlocutorǝ, ma subisce anche pressioni dal mondo accademico e delle committenze. La ricerca è un lavoro che richiede una produzione di risultati, lǝ ricercatorǝ non è un intellettuale estraneo a questi meccanismi che si immola per un bene comune. Ancora una volta, la Patchwork Ethnography si muove per bloccare e invertire i processi di invisibilizzazione della disciplina. Riconoscere i limiti aiuta a superarli e, nel caso dell’antropologia, è un’ulteriore occasione per ricordare che il fondamento di molti saperi è la collaborazione fra più parti, anche col fine di arginare i limiti aumentando le possibilità.Alla luce di tutto, possiamo concludere che non si tratta tanto di un approccio specifico quando di un invito alla riflessione.

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