
“Nuove Antropologie” è un ciclo di incontri che abbiamo pensato con l’obiettivo di dare spazio a dialoghi su alcune delle direzioni della ricerca antropologica che non sempre trovano risalto negli studi canonici sulla disciplina.
Il seminario si sviluppa intorno a due domande principali che attraversano tutti gli incontri: in cosa consiste questo approccio? e quale contributo particolare offre questo approccio all’antropologia?
L’antropologia multimodale nasce dalla constatazione che la conoscenza antropologica non possa esaurirsi unicamente nella scrittura testuale. Lavorare multimodalmente significa aprirsi a una pluralità di linguaggi – visivi, sonori, materiali, performativi – e riconoscere che ogni modalità produce effetti conoscitivi propri, non riducibili gli uni agli altri. La multimodalità, in questa prospettiva, non è solo una tecnica, ma una postura epistemologica ed etica: implica rimettere continuamente in discussione le forme attraverso cui costruiamo, restituiamo e condividiamo sapere.
Durante questo incontro, Christian Vium ha scelto di non partire da definizioni astratte, ma di costruire il discorso attraverso esempi concreti, intrecciando riferimenti storici e racconti della sua pratica di ricerca. Ha ricordato alcuni momenti chiave dell’antropologia visiva, soffermandosi in particolare su Nanook of the North (1922) di Robert Flaherty e sui lavori di Jean Rouch. Nel primo caso, Flaherty — pur non essendo un antropologo accademico — collaborò strettamente con gli Inuit, coinvolgendoli nella scelta delle scene e nella costruzione della narrazione. In Jaguar (1967) e Chronique d’un été (1961), invece, Jean Rouch sperimentò forme di etnofiction in cui i soggetti della ricerca diventavano co-autori attivi del racconto, rompendo la separazione netta tra osservatore e osservato. Vium ha invitato a considerare questi esempi non come modelli perfetti, ma come tentativi di spingere l’antropologia verso una dimensione più sperimentale e partecipativa, aprendo questioni che restano vive ancora oggi.
Dopo questa breve genealogia, Vium ha proposto la propria visione dell’antropologia multimodale. Secondo lui, non si tratta di una nuova sottodisciplina né di un semplice aggiornamento formale. L’antropologia multimodale è piuttosto una pratica situata, che prende forma in base al contesto del campo, agli interlocutori, alle forme di collaborazione possibili. Scegliere il multimodale significa abbandonare l’idea che la scrittura sia l’unico o il principale modo di produrre sapere, e accettare che fotografie, video, archivi vernacolari, mixtape sonori, installazioni etc possano diventare strumenti di ricerca a tutti gli effetti. Per Vium, l’antropologia resta fondamentalmente quella disciplina che “rende familiare l’estraneo ed estraneo il familiare”, secondo una dinamica di straniamento (verfremdung) che spinge a guardare criticamente ciò che si dà per scontato. La multimodalità amplia questa capacità, moltiplicando i formati e le sensibilità attraverso cui si costruisce la conoscenza.
Un passaggio particolarmente significativo dell’incontro è stato il commento a una scena del documentario Encounters at the End of the World (2008) di Werner Herzog. Nelle immagini mostrate, un pinguino si perde, camminando verso una morte certa. Vium ci ha invitato a osservare non tanto il contenuto della scena, quanto il modo in cui viene narrata: non si parla di dati, non si offrono spiegazioni, ma si costruisce un’intensa partecipazione emotiva. Da qui, la distinzione tra “verità calcolabile” e “verità estetica”: la prima è quella della scienza, dei numeri, delle spiegazioni oggettive; la seconda è quella dell’arte, dell’immaginazione, dell’esperienza sensoriale. È attraverso la verità estetica che l’antropologia può costruire forme di partecipazione profonde, rendendo gli interlocutori parte attiva della produzione di conoscenza. In questo modo, la multimodalità diventa non solo un modo di rappresentare, ma di coinvolgere e costruire relazioni paritarie.
A sostegno di queste riflessioni, Christian ha presentato alcuni dei suoi principali progetti di ricerca, accomunati da un impegno a lungo termine, dalla sperimentazione con media diversi e da un forte coinvolgimento collaborativo:
- Tales of a Nomadic City (2009 – oggi) racconta la trasformazione di Nouakchott, capitale della Mauritania, da città nata dalla migrazione nomade a metropoli in espansione. Il progetto si sviluppa attraverso fotografie vernacolari, archivi familiari, mappe, fotografie GPS, mixtape e installazioni in realtà aumentata (VR) che documentano i cambiamenti dello spazio urbano. Non si costruisce un’unica narrazione, ma un caleidoscopio di “topografie intime”, che restituiscono la città attraverso le memorie frammentate dei suoi abitanti.
- In A Place Called Manenberg (2005 – oggi), sviluppato in collaborazione con Karen Waltorp, Vium esplora la vita quotidiana in una township sudafricana creata durante l’apartheid. Attraverso fotografie, racconti, mappe e materiali audiovisivi collaborativi, il progetto cerca di sfidare l’immaginario stereotipato delle township come luoghi di sola violenza, raccontando invece le reti di solidarietà, le aspirazioni e le pratiche quotidiane di resistenza che animano Manenberg.
- Il progetto Revisited: Wake (2014 – oggi) si concentra invece sulla restituzione critica di fotografie coloniali. In Australia, e successivamente anche in Amazzonia (Revelations) e in Siberia (Shadows), Vium ha restituito una serie di fotografie di Sir Baldwin Spencer e Frank j. Gillen, scattate tra il 1875 e il 1912, ai discendenti dei soggetti fotografati, chiedendo loro di reinterpretarle. Attraverso queste re-interpretazioni, si costruiscono veri e propri “dialoghi temporali” che non cancellano il passato coloniale ma lo mettono in discussione, lo problematizzano, aprendo nuovi spazi di critica affettiva e politica.
- Infine, Ikerasak (2019), parte di un progetto più ampio sul colonialismo danese in Groenlandia, esplora l’eredità coloniale attraverso pratiche collaborative di creazione audiovisiva. Qui, Vium lavora direttamente con gli abitanti per costruire contro-narrazioni che interrogano criticamente l’archivio ufficiale e propongono letture alternative della storia.
Alla fine dell’incontro, Christian si è soffermato a riflettere sul rapporto tra antropologia e arte sostenendo come non abbia senso tracciare confini rigidi. Ciò che conta non è stabilire se un progetto sia “artistico” o “scientifico”, ma chiedersi quale tipo di conoscenza produce, quali relazioni attiva, quali possibilità apre. In questo senso, la multimodalità diventa una forma di invenzione epistemologica e politica, non un semplice ampliamento dei formati espressivi. Attraverso il racconto della sua pratica di ricerca, ci ha mostrato non solo come si possa fare ricerca in modo multimodale ma soprattutto perché farlo: per creare spazi di invenzione condivisa, in cui l’antropologia si rinnova non per aggiungere nuovi media alla tradizione scritta, ma per mettere in gioco modi di conoscere, pensare e descrivere alternativi. Una conoscenza plurale, sensoriale, collaborativa, capace di aprire nuovi mondi piuttosto che limitarsi a descrivere quelli già esistenti. Come ricordano anche Dattatreyan e Marrero-Guillamón, la multimodalità, se praticata consapevolmente, non è semplicemente un’estensione dell’antropologia: è una politica della possibilità.
Bibliografia per approfondire
- Christian ha curato una breve introduzione alle letture consigliate, la trovate a questo link, sul nostro drive. Inoltre, sul suo sito si possono esplorare i suoi vari progetti e trovare i rimandi alle pubblicazioni.
- Cox, R., Irving, A., & Wright, C. (2016). “Introduction: The sense of the senses” in Beyond text? Critical practices and sensory anthropology
- Dattatreyan, E.G. & Marrero-Guillamón, I. (2019). “Introduction: Multimodal Anthropology and the Politics of Invention”. American Anthropologist, 121: 220-228. https://doi.org/10.1111/aman.13183